La fase terminale della malattia ha profonde ripercussioni sull’equilibrio personale e familiare, che possono andare avanti anche per diverso tempo dopo la morte del congiunto.

È importante considerare che ciascuna persona affronta l’ultima fase della vita in modo diverso: alcuni preferiscono isolarsi, diventando bruschi e sgradevoli anche con chi cerca di stargli vicino con affetto e dedizione; mentre altri hanno bisogno di continue premure e compagnia. Tra questi due estremi si pongono coloro che alternano momenti di chiusura a momenti di richiesta di dialogo e di vicinanza. Qualunque sia la modalità di reazione del proprio congiunto, deve essere rispettata. Non ha senso imporre la propria presenza se l’altro desidera stare da solo e iniziare a separarsi; né lo ha impedire le visite di parenti e amici se, pur essendo molto debilitato, desidera averli accanto.

Nell’imminenza del trapasso, la reazione del caregiver può essere analoga a quella di un congiunto. Si passa da una fase iniziale di smarrimento e rifiuto ad una fase di forsennata operosità in cui, nel tentativo di reagire, ci si preoccupa oltremodo delle cose da fare o da riorganizzare, per proteggere il paziente e allo stesso tempo placare il proprio senso di angoscia, impotenza e smarrimento. In questi momenti lo stare insieme può realmente fare la differenza per chi ci sta lasciando e per chi rimane.

Riuscire a superare il timore e l’imbarazzo del silenzio, del non sapere che cosa dire rappresenta per il malato e il familiare un’opportunità per condividere paure e stati d’animo che molte volte sono simili. Troppo spesso accade il contrario: si preferisce cioè parlare di cose generiche e futili, perdendo in tal modo un’occasione preziosa per salutarsi e trasmettersi un’eredità morale, esperienziale e spirituale importante. Può anche accadere che si assumano, di contro, atteggiamenti di eccessiva rigidità e apprensione che sono totalmente inutili e impediscono di condividere quei piccoli ultimi momenti di piacere da trascorrere insieme (come per esempio negare al malato un bicchiere di vino perché «non gli fa bene»).

Ricorrere all’aiuto di uno psicologo può facilitare il caregiver nel riconoscere eventuali difficoltà causate dalla situazione e ad attingere alle risorse necessarie per provare a superarle.

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